Non riusciamo a trovare le parole adatte per parlare della storia di Cloe Bianco, morta suicida a 58 anni, ritrovata carbonizzata nel camper in cui viveva da tempo.
Come ormai noto dalle pagine di cronaca dei quotidiani, Cloe era stata sospesa per tre giorni e poi allontanata definitivamente dal suo lavoro di insegnante, per essere spostata dietro la scrivania in qualità di segretaria. Una decisione maturata non in seguito a considerazioni sulle sue qualità di docente, ma per un’unica colpa, risalente a 7 anni fa: la scelta – evidentemente “scomoda, fuori luogo, inopportuna” – di fare coming out come persona trans. Presentarsi con abiti femminili avrebbe dunque provocato uno scandalo a cui è stato posto rimedio con l’occultamento.
Oggi, di fronte al corpo di Cloe arso dalle fiamme, ci sembra quasi inutile pretendere a viva voce, immediatamente, una legge contro le discriminazioni verso le persone lgbtqia+ sul posto di lavoro. Perché l’ingiustizia subita sulla sua pelle non basta a spiegarne il gesto, la scelta di una donna che sentiva “d’esistere sempre sommessamente, nella penombra […] in punta di piedi, sempre ai bordi della periferia sociale, dov’è difficile guardare in faccia la realtà”, che riteneva di essere “un’offesa al mio genere, un’offesa al genere femminile. Non faccio neppure pietà, neppure questo”.
Quando si domanda il motivo dell’esistenza dei Pride andrebbero ricordate storie come quella di Cloe, nei confronti della quale un’intera società transfobica è colpevole. Colpevole di averla ignorata, nascosta nell’ombra, marginalizzata, esclusa, quando Cloe avrebbe potuto avere un’esistenza felice.
E a chi sui giornali – gli stessi che usano il deadname dell’insegnante, che parlano di “outing” senza senso – fa riferimento a una presunta fragilità di Cloe che ne avrebbe provocato la fine, rispondiamo che sensibilità e fragilità vanno apprezzate, custodite e difese, e non schiacciate come avvenuto nel caso di Cloe o della 15enne Sasha, volata dal sesto piano di un palazzo.