La chiamano Giornata della memoria, ma di ricordi ne sono rimasti pochi. Da anni si è perso lo spirito di questa ricorrenza, sempre più manipolata dalle istituzioni politiche per intenerire le coscienze, strumentalizzata per proporre i soliti film o i classici discorsi stereotipati sull’importanza della diversità e dell’inclusione sociale. Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa, che pochi mesi dopo entreranno a Berlino ponendo fine alla guerra, liberano il campo di concentramento di Auschwitz. Per molti internati si chiudono le porte dell’inferno, almeno quello fisico, perché la sensazione di sentirsi sempre intrappolati in quei posti non li abbandonerà mai. Per gli omosessuali, invece, le fiamme continuano a bruciare. Molti passano da campi di concentramento al carcere, dove finiscono di scontare la loro pena in base al Paragrafo 175, la legge che proibiva relazioni tra persone dello stesso stesso in Germania e che verrà abolita solo nel 1994.
Di conseguenza, nessun omosessuale, a differenza degli ebrei, riceve un indennizzo o un minimo conforto per le sofferenze subite. Ancora oggi, testimoni ce ne sono pochissimi proprio per le conseguenze che dichiarazioni del genere avrebbero comportato. Negli anni prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale, ai sospetti omosessuali è vietato persino l’ingresso o l’immigrazione in quasi tutti gli Stati del mondo.
Tutto questo è l’Omocausto, una strage condivisa non solo dai nazisti ma anche da tutti quei governi che, pur professando principi democratici, sono diventati partecipi del rigurgito omofobico. L’esatto numero delle vittime non è stato ancora accertato e probabilmente non lo sarà mai. I tedeschi sono sempre stati molto attenti nel nascondere e confondere i dati e l’approssimarsi della sconfitta indusse i capi nazisti a distruggere tutti i documenti che avrebbero potuto dimostrare i loro crimini. Alcuni storici parlano di 50 mila vittime, altri addirittura di 200 mila. Anche la Chiesa si è sempre rifiutata di approfondire le indagini in questo senso, per timore che troppe delle accuse di omosessualità mosse nei confronti dei suoi rappresentanti risultassero fondate.
Per questo è importante parlare di Olocausto e di Omocausto congiuntamente. Non si tratta di “ghettizzarsi” (appunto) o di trovare pretesti per emergere come comunità gay. Si tratta di far luce su un tema spesso oscurato dal ben più discusso antisemitismo, si tratta di distinguere le differenti sorti di coloro che hanno vissuto quelle atrocità, come due fratelli che hanno diritto di raccontare la propria storia nonostante discendano dalla stessa famiglia.
I cosiddetti triangoli rosa, pensato come il colore delle “ragazzine” e quindi usato per ridicolizzare la mascolinità, erano gli ultimi tra gli ultimi, emarginati dagli stessi internati. Nei campi di concentramento gli omosessuali erano spesso sottoposti a castrazione, costretti ai lavori più faticosi e stuprati per il divertimento delle SS. Molti si suicidano, spesso anche insieme al proprio compagno. Approfondire questi temi non toglie niente a nessuno, anzi. Nel 2000, Rob Epstein e Jeffrey Friedman hanno filmato un documentario, intitolato proprio Paragraph 175, per raccogliere le testimonianze di cinque sopravvissuti appartenenti alla comunità LGBT+. Si racconta come prima della guerra nella sola Berlino vi fossero almeno quaranta gay bar e non era difficile avere una relazione sentimentale gay. Insomma, intorno alla questione vi era una sostanziale tolleranza diffusa. La maggior parte degli eterosessuali erano disposti ad avere un rapporto omoerotico sia perché privi di pregiudizi, sia perché mossi dall’indigenza economica. Nel corso degli anni anche altri si sono occupati dell’argomento: uno dei primi è stato Massimo Consoli nel suo libro Homocaust. Secondo l’autore, i gay erano gli unici tedeschi a tener testa a Hitler, a partire dal dichiarato Ernst Rohm, capo delle SA. Altra produzione italiana è Gli occhiali d’oro, film tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, noto soprattutto per la colonna sonora di Ennio Morricone. Ambientato a Ferrara durante il fascismo, racconta la storia del giovane ebreo Davide e del medico omosessuale Athos, entrambi costretti a vivere ai margini della società dell’epoca.
Nessuna conquista è mai definitiva. Questo ce lo insegnano i giorni nostri, dove le problematiche legate ai diritti civili sembrano essere passate in secondo piano e rischiano di regredire, e ce lo insegna il passato. Purtroppo ancora oggi alcune vite valgono meno di altre. Quando cambieranno le cose? Se l’amore non salva nessuno, che almeno sia un degno compagno di viaggio.